Trevi d’autore

Ritornando a dietro a Fuligno, et passando oltre a quello, si vede alla sinistra lungo la costa degli alti monti dell’Appennino Trevi.
Secondo Biondo pare, che sia questo quel luogo detto Mutisce, seguitando Servio sopra quelle parole di Verg. nel 7. lib. Ereti manus omnes oliviferaeque Mutiscae.
Et vuole che così Mutisce fosse primieramente detto, et poi Trebia (hora Trebula) appresso cui Annibale superò i Romani, inducendo quel verso di Lucano. Quod impunita nati tempora tinnarum, Trebiaeque inventur.
In vero pare a me errare gravemente Servio dicendo esser questa città Trebia, ove Annibale diede la rotta ai Rom. conciosia cosa, che quella Trebia è un fiume nella Gallia Togata oltre a Piacenza (come dimostra Livio) et questo luogo di Mutisce, secondo le parole di Verg. è quivi ne gli Ombri vicino a i Sabini, et crede che ’l sia Trevi poi nominato Mutisce, et altresì Trebula (come parimente scrive il Landino, et Plinio nella 4. regione al capo 11. del 3. lib. ove afferma gli Trebulani esser dimandati Mutisce, et Suffenati.
Et Dionisio Alicarn. nel 1. lib. dimostra esser Trebula vicino alla via Quincia, da Riete discosto 60. stadij, et siano 7. miglia, et mezo posta sopra d’un picciolo colle.
Et ella è annoverata fra i Sabini da Strab. Plin. et Tolomeo.
Et per tanto il sito, et similmente parte del nome, assai dimostrano doversi tenere fosse Trevi, Mutisce, et Trebula, conciosia cosa, che è il territorio di quella molto abondante d’olivi, come dice Vergilio, et ella è posta a gli confini de’ Sabini, tale che altre volte si poneva fra essi, secondo gli scrittori sopranominati, et etiandio il nome di Trevi assai si conferma con Trebula.
Et perché habbiamo detto, che Dionisio scrive esser questa città vicina alla via Quintia, et hora si vede lungo la via Flaminia, così direi, come ne’ tempi di Varrone, da cui ha istratto queste cose Dionisio secondo ch’egli dice, era nominata questa via Quintia, et che poi in successione di tempo, essendo rassettata da Flaminio (come dimostrerò a luogo suo) fu dimandata Flaminia.
Ne fa memoria Livio de gli Trebulani nel 20. lib. scrivendo, che fossero fra i cittadini R. Et Mar. così dice del cascio Trebolano.
Trebula nos genuit, commendat gratia duplex
Sive levi Flama, sive domamur aqua.

Et altrove.
Humida, qua gelidas submittit Trebula vales, Et virdis Cancri mensibus alger ager.
Poi all’incontro di Trevi sopra gli ameni colli scorgesi Monte Falco Castello di nuovo nome, come scrive Biondo, et il Volaterrano, ma di popolo molto pieno, onde ebbe origine la vergine B. Chiara dell’ordine de gli Eremitani.
Nel cui cuore, essendo passata ella a miglior diporto, furono ritrovati scolpiti tutti li misteri della sacrata passione di Christo, con la croce, et con tre picciole pietre tutte di un medesimo peso, dinotando in quanta veneratione haveva havuto il profondissimo [90v] misterio della santissima Trinità.
Poi alle radici di quel colle nella già via Flaminia, vi è Bevagna da Catone, Strabone, Tolomeo, et Cor. Tac. nel 9. lib. Mevania detta.

-omissis-

Veggonsi molti alti i Monti, quali sono sopra Nuceria, et del fiume Topino, che corre alle radici del colle, sopra cui giace essa città (come dimostrai) supra Fuligno, Trevi, et Spoleto.
Vero è, che fra sé sono partiti dalle vallete, et fiumicelli in tal maniera, che dalla pianura, valle di Spoleto dimandata (di cui dicessimo, esser tanto fruttifera, et dilettevole) ritrovansi gran spatio, et instanza insino all’Apennino.
Nel qual spatio appareno molti castelli, ville, et contrade d’antico nome.

-omissis-

Dipoi sotto il colle (ove dicessimo esser Trevi) vedesi una fontana di chiarissima acqua, quale ne getta tanta abondanza, che fra spatio d’uno stadio, produce un fiume, che mette poi capo nel Topino sotto Fuligno.
Egli è questo fiume il Clitunno ramentato da Verg. nel 2. lib. della Georgica, quando scrive.
Hinc albi Clitunne greges et maxima taurus,
Victima saepe tuo, perfusi flumine sacro.
Romanos ad Templa deum duxere triumphos.

Et Sillio nel 8.
Et lavit ingentem perfundens flumine sacro
Clitumnus taurum.

Dice Servio sopra i versi antidetti di Vergilio esser il fiume Clitunno vicino a Mevania, et ivi nascere i buoi bianchi bevendo dell’acqua del detto, le matri d’essi, dei quali poi ne era fatto sagrificio da i trionfatori in Roma prima lavati con l’acqua di esso fiume.
Et Pietro Marso dichiarando i versi sopra posti di Sillio, parimente scrive, sì come Servio.
Vero è, che Plinio nel capo 106. del terzo libro dice haver tal virtù l’acqua di questo fiume, che bevendone i buoi diventano bianchi, soggiunge che detto fiume è ne’ Falisci.

-omissis-

Nondimeno si dee tenere che sia questo fiume Clitunno nell’Ombria come dimostra Lucano, Propertio, et Servio con molti altri scrittori.
Et pur se alcuno dicesse che Plin. altrove dice esser lo Clitunno ne’ Falisci, costantemente risponderei esser falso, parlando però di questo Clitunno.
Ma in vero io non ho ritrovato alcun fiume ne’ Falisci di tal nome, et c’habbia la virtù di far nascere i buoi bianchi, overo che nati bevendo della detta acqua diventano bianchi.
Sono altresì fra Trevi, et Spoleto molti castelli de gli Spoletini.
Ritrovasi fra quegli asperi, et alti monti Cereto castel di nuovo nome, et molto pieno di popolo…

Bibliografia
Tratto da: Descrittione di tutta l’Italia, et isole pertinenti ad essa.Di fra Leandro Alberti bolognese.
Nella quale si contiene il sito di essa,l’origine, e le signorie delle citta, e de’ castelli; co’ nomi antichi, e moderni; i costumi de popoli, e le conditioni de paesi
; Stampatore: Paolo Ugolino; Venezia, 1596

Dal progetto www.liberliber.it 1a edizione elettronica su www.liberliber.it del:
10 giugno 2007, e-book realizzato www.liberliber.it anche grazie al sostegno di E-text Editoria, Web design, Multimedia, http://www.e-text.it/

Alla edizione elettronica su www.liberliber.it hanno contribuito:
Dario Giannozzi, darigia@tin.it
Elena Macciocu, elena_672002@yahoo.it
Sergio Martino, s.martino@tno.it
Ruggero Volpes, r.volpes@alice.it
Vittorio Volpi, vitto.volpi@alice.it

Revisione su www.liberliber.it :
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Ruggero Volpes, r.volpes@alice.it
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Pubblicato su www.liberliber a cura di:
Catia Righi, catia_righi@tin.it

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Segnalato a TreviAmbiente da Danilo Rapastella.

…si cammina su di una strada molto bella…

– tra Spoleto e Foligno –

“… si cammina su di una strada molto bella che è come un viale di pallamaglio,
riparato sovente da alberi e da siepi, e si traversa una gran vigna in cui le viti salgono sugli alberi che sembrano una foresta piantata a quinconce; questi alberi sono gelsi bianchi, sicomori e olmi…”.

Bibliografia
Commento di Joseph-Jerom Lefrançais de Lelande in “Voyage d’un françois en Italie fait dans les années 1765-1766”, 8v., Paris 1769

Trevi la città, che con iscena
d’aerei tetti la ventosa cima
tien si che a cerchio con l’estrema schiena
degli estremi edifici il pie’ s’adima…

“Come chi, d’Appennin varcato il dorso
presso Fuligno, per la culla valle
cui rompe il Monte di Spoleto il corso,
prende l’ameno e dilettoso calle,
se il guardo lieto in sulla manca scorso
leva d’un sasso alle scoscese spalle,
bianco, nudato d’ogni fior, d’ogni erba,
vede cosa onde poi memoria serba:
di Trevi la città, che con iscena
d’aerei tetti la ventosa cima
tien si che a cerchio con l’estrema schiena
degli estremi edifici il pie’ s’adima;
pur siede in vista limpida e serena
e quasi incanto il viator l’estima,
brillan templi e palagi al chiaro giorno,
e sfavillan finestre intorno intorno”.

Così Giacomo Leopardi cantò Trevi, avendo avuto occasione di ammirarla nel corso dei suoi viaggi da Recanati a Roma.

Trevi quasi una Torre di Babele

Trovandosi di fronte a Trevi, affascinato dalla sua posizione, posta così in alto sulla valle, August von Kotzebue ebbe a paragonare Trevi alla Torre di Babele.

August von Kotzebue, romanziere e drammaturgo tedesco (1761-1819).

Il percorso da Foligno a Spoleto è uno dei più belli di tutto il viaggio…

– Tra Spoleto e Foligno –
“… Da ogni lato della strada, il nostro panorama era costituito da una ricca campagna, piantata fittamente da gelsi bianchi, sicomori, olmi e vigne.
Il grano cresce tra i filari degli alberi, e qui la fatica dei contadini è ricompensata da 4 abbondanti raccolti: le foglie di gelso per i bachi da seta, i frutti del gelso, l’uva e il grano…”.

Commento di Anna Miller, giovane inglese, trentenne all’epoca del viaggio in Umbria avvenuto nel maggio del 1771, e animatrice in patria di un rinomato salotto letterario.

Trevi “la città olifera”

Trovandosi di fronte a Trevi, da lui stesso tratteggiata come “la città olifera”, Michelle de Montaigne, scrittore francese, definì la valle folignate-spoletina, come “la più bella pianura tra i monti che sia da vedere”.
Era l’anno 1581.

Il percorso da Foligno a Spoleto è uno dei più belli di tutto il viaggio…

“… Il percorso da Foligno a Spoleto è uno dei più belli di tutto il viaggio.
Questa regione ha qualcosa di dolce e allo stesso tempo di grandioso e romantico
… Verso il tramonto tirava un’aria mite; sulla campagna riposava la nebbia…”.

Commento di Karl Philipp Moritz, scrittore e insegnante di Berlino, che transitò nella nostra valle, diretto da Loreto a Roma, alla fine di ottobre del 1786, in “Reisen eines Deutschen in Italien in den Jahren 1786 bis 1788”, Berlin 1793.

“Trevi”

“… che tra tutti i paesi e le città
de st’Umbra verde, io so’ lu più bellu.
E con tanti piantuni che ci ho attornu
ce faccio lu painu notte e ghjornu.

Quell’olía che vene da lu scoju
quanno la porti drento a lu mulinu
vene fora ‘n prodottu sopraffinu
che doppo, chi cucina con quell’oju
‘npo sbalurditu subbitu dirrà:
st’oju de Trevi è ‘na specialità!”

Poesia di Ezio Valecchi dedicata a Trevi, tratta da “I soprannomi di Spoleto e dei suoi dintorni”, Spoleto 2006.

Segnalato a TreviAmbiente da Danilo Rapastella.

Alcuni soprannomi… di gente di Trevi

A Riccia = macellaia di Trevi, famosa per la sua capigliatura e il suo buon umore (soprannome risalente alla prima metà del XX secolo).

Caffè = straccivendolo di professione, raccoglieva stracci e robe vecchie con il suo carretto trainato da un asinello.

Fiorottu = uomo sempliciotto, nato e vissuto nella campagna trevana.

L’Africanu = reduce della guerra in Africa del 1896, è ricordato perchè amava raccontare la sua esperienza bellica nel continente nero.

Lampapirù = altro sempliciotto vissuto nella campagna trevana, vendendo sedani.

Marchittu = Francesco Marianucci detto anche “Lu Guerciu”, boscaiolo, analfabeta, conoscitore di lunghi brani dell’Orlando Furioso.
Rimatore, le sue satire ci sono giunte di terza mano, ormai incomplete.
Visse tra i boschi di Trevi in una casetta presso il fosso dell’Eremita, descritta nell’itinerario 7 di “Trevi quattro passi tra storia e natura”.

Patoccu = cantante e suonatore di organetto, visse nella prima metà del ‘900.

Pidinu = noto cordaio.

Pistalerba = vetturino trevano, vissuto nel ‘900.

Purvirignanu = scopino, oggi diremmo operatore ecologico, uomo semplice ma di viva intelligenza, benvoluto da tutti i suoi concittadini.

Spaghettu = stornellatore, girava le feste che animavano la campagna di questa zona dell’Umbria accompagnandosi con l’organetto.

Sticchia = ladro famoso e assai temuto, visse a cavallo tra il XIX e il XX secolo.

U Pagghiu = della famiglia Paggi, apprezzato coltivatore diretto della campagna trevana, precursore nell’uso della pressa azionata a mano per imballare i foraggi secchi.

Tratto da “I soprannomi di Spoleto e dei suoi dintorni”, di Ezio Valecchi, Spoleto 2006.
In questa pubblicazione, curata da Ubaldo Santi con la collaborazione di Gianfranco Lipparelli e Armando Gregori, si possono trovare tante altre poesie di Ezio Valecchi e innumerevoli notizie sui soprannomi in uso a Spoleto e dintorni (Trevi compresa): un tuffo nel passato, alla scoperta di una delle più curiose tradizioni dell’ambiente rurale della Valle Umbra meridionale, quando tante persone ed anche intere famiglie erano conosciute solo tramite il soprannome.

Segnalato a TreviAmbiente da Danilo Rapastella.

– Trevi –
“… Non mi sembra accessibile che agli uccelli e alle capre…”

Commento di Luc Joseph van der Vinckt, avvocato e letterato fiammingo.

Un’altra piccola città, circa 4 miglia più in là , che si chiama Treva

“…Un’altra piccola città, circa 4 miglia più in là , che si chiama Treva, situata su una collina rotonda, più bassa della grande montagna, è molto piacevole da vedere…”.

Commento di Edward Wright “Some observation made in travelling trough France, Italy, etc. in the year 1720, 1721 and 1722”, 2v., London 1730.

Bibliografia
  • Sorbini A., “La via Flaminia” – Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea Editoriale Umbra, Foligno 1997 (per Luc Joseph van der Vinckt, Edward Wright, Karl Philipp Moritz, Joseph-Jerom Lefrançais de Lelande, Anna Miller)
  • Toni F., “Sulla potatura dell’Olivo nel territorio spoletino” in “Giornale scientifico letterario e Atti della Società economico-agraria di Perugia” – Tipografia Bartelli, Perugia, 1857.
Credits

I testi sono raccolti dagli autori di TreviAmbiente e da tutti coloro, che navigatori del web, hanno voluto contribuire a questo viaggio tra le “note d’autore”.
Se non sono indicati autori diversi, le segnalazioni sono a cura di Tiziana Ravagli e Giampaolo Filippucci.
Le immagini selezionate, se non diversamente indicato, sono scatti di Giampaolo Filippucci e Tiziana Ravagli.

DI natura e d'intimi pensieri: i trevani raccontano Trevi e il suo ambiente

«Non è stato un colpo di fulmine, ma un lento innamoramento»

Talvolta è il baleno a illuminare l’ombrosità del sentiero,
talaltra è il chiarore soffuso della sera,
quello cui gli occhi si abituano piano piano e che nel contrarsi delle tenebre a occidente ci apre al dettaglio delle ombre.
Sono gli attimi che determinano una vita:
istanti che modificano il corso degli eventi e si fondono come tessere di un mosaico,
oltrepassando i confini di una sola esistenza.
Tutto questo mi aiuta a capire…
Mi sovviene il pensiero di incontri leggeri,
di viole che tessono le trame di tappeti irrisolti,
di esili tulipani che si piegano al vento, mitici araldi dell’Amore perfetto.
In primavera, i prati d’altura emergono dalle rocce più forti del sole, dell’acqua e del vento;
più forti del transito lento che ne segna i confini, perdendosi presto nell’afa sottile che annuncia l’estate.

Può l’essenza di una terra esaurirsi nella fragranza delicata dei prati in fiore?

Forse è celata nel verde dei faggi: arbores felices, come le querce, o i lecci.
Tu, Titiro, sdraiato al riparo di un grande faggio
intoni una canzone silvestre sull’umile zampogna…
Cammino spesso nella faggeta al riparo dalla canicola estiva o dai rigori della stagione più buia;
ne ammiro le fronde tese che proteggono dal vento indiscreto il simbolo del solstizio invernale.
Nel freddo pungente, l’agrifoglio difende con foglie coriacee e puntute le drupe vermiglie,
eppure, lo colgo nell’atto di offrirle quale cibo gustoso [a dire il vero velenoso per noi uomini] a piccoli uccelli;
ne osservo la chioma spinosa e torno con la mente a una vecchia ballata di paesi lontani:
l’edera e l’agrifoglio, che sulle piante regnano, con grande amore voglio cantare…
Dalla fine dell’inverno percorro interminabili sentieri in cerca di orchidee.
Mi affascinano quei minuscoli fiori.
Le scopro sui prati aridi e sassosi,
le ammiro ai limiti del bosco,
le trovo all’ombra fresca dei faggi:
mi piace osservarle crescere, giorno dopo giorno,
apprezzarne il fiorire che evolve lentamente.
Un’attesa che spesso si vanifica nello spazio effimero di un’assenza,
rinviando la scoperta a un nuovo incontro, o, ancora oltre, a un nuovo anno.

Può, dunque, la forza che mi costringe a tornare svelarsi tra i rami di un faggio?

Può risiedere, forse, sui pendii olivati che l’uomo ha disegnato con cura parentale,
ponendo pietra su pietra,
definendo la trama variegata di lunette e gradoni.
Può comporsi lungo il cammino di un vecchio acquedotto,
o apparire alla luce fioca di un lumino che onora la Madre di Cristo,
svelata dal pennello nel tenero abbraccio.
Certe volte, macaoni e podaliri si danno appuntamento dove l’aria generosa mitiga il caldo che opprime la valle;
li osservo, di nascosto, per non turbare l’equilibrio di quei voli leggeri.
Lontano,
tra gli alberi torti in cui l’ombra sembra non trovare dimora,
mi colpisce la forma svettante di esili campanili sormontati da piccole croci.
Mi avvicino,
ed entrando in quelle piccole chiese,
mi emoziona la presenza di labili pitture che l’umidezza dissolve nel silenzio del tempo,
complice l’inerzia pigra che ci accompagna.
Rivedo il pellegrino fermo a pregare, al riparo dall’afa, dal freddo, dal vento,
rinfrancato da un pezzo di pane e, forse, da un bicchiere di vino.

Sono dunque gli incontri inattesi a condurmi in questi luoghi?

In inverno mi attraggono le creste rotonde;
le raggiungo per stretti sentieri e vie polverose,
superando rocce calcaree e prati spogli e sassosi.
Da questi monti, nelle giornate limpide e serene, lo sguardo si perde in lontananza,
quasi sorretto, a tratti sospinto dal vento gelido di tramontana:
guidami più piano che voglio vedere,
guidami più lontano che voglio arrivare…
Solo ieri, il respiro dei fiumi esalava calmo e sottile, sfumando nella nebbia i contorni delle valli,
e risaliva intenso, quasi opprimendo, sino a lambire le prime case di Trevi.
Corsi d’acqua e il ricordo di antiche paludi richiamano in questi luoghi aironi bianchi e cinerini,
invitano alla sosta piccole garzette dal piumaggio candido e dalla crestina sottile.
Mi capita di osservarli nella quiete solare di un qualunque pomeriggio d’estate.
Si alzano in volo lenti e sinuosi.
Si confondono tra i getti radenti di fontane ritmate, che si librano per poi ricadere a baciare la polvere arsa.
Nel pulsare vivo della campagna, questa regione conserva qualcosa di dolce e al tempo stesso di grandioso e romantico.
Cammino pigramente lungo il fiume Clitunno e continuo a pensare,
mentre la luce del giorno scompare dietro i Martani,
e la bruma serale scende lenta, ammantando di silenzio ogni respiro nella valle:

“ille terrarum mihi semper praeter omnis angulus ridet” [Orazio, Odi, II, 6, 13]

quest’angolo di terra mi rende felice…

Tiziana Ravagli e Giampaolo Filippucci, così raccontano

Trevi: paesaggi da gustare

I trevani raccontano Trevi e il suo ambiente

A te voglio dedicare le tue e le mie memorie… La vecchia quercia
Era il 12 Dicembre 2008:
Mi sveglio con la preoccupazione di riattivare la luce, guardo l’orologio fermo dalle tre del mattino.
Durante la notte aveva fatto temporale ma non avevo sentito molto il suo fragore.
Mio marito appena sveglio si affaccia alla finestra e mi dice che è caduta la quercia del campo.
Sono andata a vedere e subito ho pensato al racconto della mia autobiografia…
Sì, la quercia della mia vita!
Non proprio quella, perché nei miei scritti ne ho tenuta mentalmente presente un’altra che è posizionata a poca distanza.
L’evento mi ha sconvolto.
Come sempre, per mia natura, non riesco ad ostentare il dolore all’esterno.
Parlo poco se sollecitata limitandomi a dire che ho un grande dolore.
Le domande principali sono quelle del recupero della legna e il rifornimento di essa per lungo tempo.
Solo lo scritto mi fa piangere e mi consola.
Mi fa gridare e mi fa tacere.
Più passa il tempo e più mi sento triste.
Se poi vedo la quercia ancora in terra mi da la sensazione che i suoi poderosi rami chiedano aiuto!Si piegano, si attorcigliano, piangono rivolti verso il cielo quasi a segnare la presenza di un’anima che non finisce con il tempo.
La chioma larga occupa più di venti metri di superficie.
Le foglie ingiallite e marroni aderiscono piatte al terreno senza un alito di ripresa e senza una speranza di vita Oh! Che dolore! Non ho ancora il coraggio di avvicinarmi alle sue fronde,la guardo da lontano come se non fosse vero.
Il pensiero della sua morte mi attira in ogni momento della giornata e la vedo sempre fissa nel terreno, sempre più spenta, sempre più nera.
E così, in una notte tempestosa il grande albero ha perso la sua forza e la sua vigorosità.
Ho pensato: il fulmine non ha perdonato questa povera creatura…ma ancora più triste mi sono sentita quando mio marito dice che dopo tanti anni gli alberi muoiono…
Anni? Secoli!!!
Da una stima superficiale sono circa quattrocentocinquanta anni che quel monumento era lì.
Pensieri affollano la mia mente cercando di ricordare o immaginare l’entusiasmo e l’ardore di chi ha piantato il primo ramoscello con la speranza di accompagnare la sua crescita e di morire con esso.
Chi sa se sarà stato il mio quinto avo,così come nominato nella descrizione dell’albero genealogico?
Perché penso a lui? E non a qualcun altro che prima di lui ha abitato questa terra?…questa casa?
Perché sento che da lui ha avuto origine il mio filo vitale, forte, continuo e ben alimentato dalle radici.
Ogni volta che tocco un pezzo di ramo per accendere il fuoco, rivivo la sua vigorosità e la sua fiamma viva mi scalda con un sommesso lamento di aiuto.
Penso che era stato piantato per delimitare i confini.
Per difendersi dalle intemperie.
Per definire e arricchire i possedimenti.
Per fare legna.
Per costruire mobili o qualsiasi altro strumento utile ai lavori agricoli.
Nei vecchi documenti che possiedo ho letto che mia nonna Orsola era proprietaria di dodici querce nel vicino paese da dove proveniva prima di trasferirsi con la famiglia in questa casa.
Esse costituivano parte del patrimonio ricevuto in dote, erano state numerate e vendute con atti notarili.
Allora sempre più mi convinco che questi alberi facevano parte della casa, della famiglia alla stregua di un figlio o di un parente.
Oh! Se potesse parlare!
Gridare al mondo intero la sua esistenza, il suo formarsi e il suo crescere in un contesto familiare, dove tutti gli sguardi erano rivolti alla sua figura dapprima esile e poi pian piano sempre più grande.
Forti speranze si sono riposte in essa a cominciare dal simbolo di guardiano della casa, ad aspettare la maturazione dei suoi frutti per sfamare gli animali, ad accogliere il riposo dalle lunghe fatiche del lavoro della terra…
Qualcuno, posso immaginare avrà trascorso lungo tempo a parlarci, a rasserenarsi l’anima con il dolce fruscio delle foglie e con un piacevole sottofondo musicale mosso dal venticello fresco della mattina o da quello corroborante della sera illuminato dal rosso fuoco dei raggi del sole.
Anche io mi immedesimo e mi addentro in questa oasi, ripenso con piacere alle sensazioni che mi procurava quando mi trovavo sotto di essa e respiravo aria pura e fresca.
Nelle calde giornate dal tepore primaverile osservavo la sua possanza.
A volte non osavo avvicinarmi al suo tronco ricoperto di fitta edera perché rappresentava misteri, misteri di antico, di fantasmi Sotto la sua ombra mi pareva di vedere folletti che ballano e abbracciano il tronco, ma che vengono scacciati da una forza dalle sembianze umane così come la corteccia dura e nera rappresenta.
Consideravo quella zona quasi minata perché la sua grandezza aveva invaso di erba alta di rovi e cespugli tutta la circonferenza, dando facile ospitalità agli animali o a serpenti di cui ho tanta paura.
Era però la zona più fertile per le erbette di campagna, l’agrifoglio, gli asparagi, le violette e le margherite che formavano all’intorno un allegro tappeto colorato e profumato.
Ogni anno non mi faccio sfuggire queste primizie e ci ritornerò con il ricordo nel cuore.
Il mio sguardo si perdeva nell’alto della sua chioma, un pensiero mi saliva dall’anima e restavo estasiata dalla sua maestosità.
Ora mi manca, sento che non ne posso fare a meno, è come se si fosse spezzato il filo dell’eternità, eternità perduta, eternità conquistata Sì, conquistata perché le fresche erbette saranno il simbolo della rinascita, di qualcosa che è esistito e che non può morire nel mio cuore.
Neanche un ramo verde che mi può ridare la speranza di tornare a vivere! E allora cerco qualcuno o qualcosa che possa consolarmi, e che possa farmi rinascere.
Non posso fare a meno di tradurre in versi quello che sento e che provo.

Guardo il cielo, guardo il mondo!
Cerco la stella più grande ma non la trovo/la nuvola della notte l’ha portata via.
Tutto è buio intorno.
Una sagoma scura, grande, larga appare ai miei occhi increduli.
Sono attirata da quelle fronde e da quel respiro ormai sopito…
.. Il cuore piange di dolore/ note musicali,fiati di tromba elevano la mia anima in mezzo alla tempesta.
Cado a brandelli e cerco la luce della tua speranza.
Illuminami/parlami ancora…

Emiliana Carletti, così racconta un aspetto del paesaggio: la vecchia quercia

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