Trevi, Picciche

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Picciche è una piccola frazione, ubicata tra Cannaiola e Castel San Giovanni, ai lembi sud occidentali del comune di Trevi.

Quest’area, fino al XIV secolo circa, doveva essere soggetta alle esondazioni del torrente Tatarena, che lambisce l’abitato ad occidente: in quel secolo, infatti, il torrente venne riconfinato. Le ricche alluvioni, lasciate dal corso d’acqua nelle sue divagazioni planiziali, hanno reso questa terra poco generosa. Durastante Natalucci nella Historia … di Trevi, così ne descrive il territorio: “… Come da per tutto è coltivato, eccettuatone poco tratto di là dalla Tatarena. Nella guisa che è ripieno di pergole ed altri frutti ed è ancora fruttifero per il grano, canape ed ogni sorta di vettovaglie attesa la bona cultura, imperoché, a seconda della terra, non è molto fertile essendo ripiena la sua maggior parte della sterile impostura e sabbione di detto torrente…”.
Picciche ebbe origine, probabilmente, nel 16° secolo: il Piccolpasso ci dice, infatti, che al suo tempo il luogo era nuovo, fatto alla creazione di papa Leone X, e che, tra contado e paese, si contavano 40 fuochi.
Nella Historia … di Trevi, leggiamo che il castello fu costruito nel 1516 per salvaguardare gli abitanti del luogo dalle incursioni degli Spoletini. Un castello non molto grande, ma forte e ben tenuto, circondato da un fossato dove si potevano pescare “le tinghe, l’anguille ed i saltarelli”. Protetto da alte mura di mattoni cotti, con due grandi torri ai cantoni e porta con ponti levatoi. All’interno vi erano delle case riservate agli abitanti del luogo, per le evenienze dettate dalla poca pacificità dei tempi, e che per questo fine non potevano essere vendute ai forestieri.
Il castello originario, di cui oggi non resta quasi nulla, aveva forma di rettangolo sghembo, con ingresso ad occidente.
Nell’opera del grande storico di Trevi, leggiamo che la Balia di Picciche è la quinta del Terziere del Piano e che nei tempi antichi era unita ad altre balie sotto il nome di Balia delle Porcarie, essendo sconosciuto l’attuale appellativo. Vi facevano parte i vocaboli denominati: “… Selvale, S.Stefano, Campo Cupo, Strada, Vallone, Casa di Citerone, Casa di Minico, Vannetta, Castello delle Picciche, Cese, Tatarena…”.
Successivamente appartenne al Terziere di Cannaiola e quindi, con la soppressione di questo, fu aggregato direttamente al comune di Trevi.
Di particolare menzione, è la chiesa parrocchiale dedicata a santo Stefano. Questa fu realizzata prima del castello, come testimoniato con certezza dalla presenza di un affresco datato 1510, dipinto, sulla parete sinistra, ad opera della bottega del Melanzio, forse dal nipote Febo. Di questo lavoro ricordiamo, in particolare, un crocefisso tra quattro Santi, di cui oggi restano i santi Sebastiano e Antonio Abate. Non si può escludere che questo edificio sia stato costruito sui ruderi di un antico tempio pagano. Su un muro di questa chiesa, lo spoletino Giuseppe Sordini, insigne archeologo, rinvenne un cippo con un’iscrizione in latino arcaico, risalente alla fine del II o III sec. a.C. Si tratta di un blocco calcareo con incisa la così detta “lex spoletina” o “lex lucaris”: “Nessuno violi questo bosco né trasporti né porti via ciò che è bosco né tagli fuorché nel giorno in cui si farà il sacrificio annuo. In quel giorno, purché si faccia per causa del sacrificio, sia lecito tagliare senza colpa. Se qualcuno lo avrà violato, offra a Giove un sacrificio espiatorio con un bue e ci siano per quel sacrificio 300 assi di multa e l’esazione della multa spetti al consacrante”.
Il tempio sui ruderi del quale, secondo un’antica tradizione, è stata forse edificata la chiesa di Picciche, poteva essere dedicato a Giove e la legge incisa sulla pietra poteva essere quella di tutela di un bosco sacro qui presente. Una selva ormai scomparsa, che a quel tempo era lambita da un’importante via di comunicazione. Precedentemente, sul colle di San Quirico era stato rinvenuto un altro cippo della stessa epoca, sempre riportante la legge di tutela del bosco sacro. L’archeologo Sordini, che ne apprezzò l’importanza, provvide a rimuoverli dai luoghi di ritrovamento per farli custodire nel museo di Spoleto.
Il bosco cui i due cippi fanno riferimento è certamente il medesimo. Occupava una superficie piuttosto ampia, anche se non vastissima, che poteva comprendere le terre di Pissignano, S. Quirico, Picciche e Castel San Giovanni. Si tratta probabilmente dello stesso bosco cui fa cenno Plinio il Giovane nella sua lettera all’amico Romano “… Ai piedi di un piccolo colle, coperto di cipressi assai folti, sgorga una sorgente…”. Non scordiamo che il cipresso ha sempre rivestito per l’umanità un ruolo speciale, quasi sacrale, e la fitta presenza di questa specie arborea nel bosco ivi ubicato, è indice ulteriore della religiosità insita in quei luoghi silvani, oggi purtroppo perduti. Lo stesso bosco, pur ridotto arealmente rispetto alla sua estensione originaria, è sicuramente quello descritto da Durastante Natalucci nella sua Historia … di Trevi, quando, tracciando i confini del Terziere del Piano, ci narra di una selva che si protende fino ai confini di Spoleto e Montefalco.
Tornando alla parrocchiale di Picciche e al suo patrimonio, ricordiamo la presenza di una grande struttura monolitica, perfettamente squadrata, forse proveniente dal tempio citato.
La chiesa è una struttura a quattro navate, a croce greca, dedicata a santo Stefano. Dalla cupola emerge una lanterna ottogonale con quattro finestre tabernacolari. Fu interamente ricostruita (dalle fondamenta) nel 1902, per volontà del parroco don Pietro Bolletta, e consacrata dall’allora arcivescovo di Spoleto, mons. Domenico Serafini. Alla memoria di don Pietro, parroco di questa frazione per quasi cinquant’anni, i fedeli riconoscenti eressero un busto in bronzo su travertino, opera dell’architetto romano Giaroli, ancora visibile nella frazione. All’interno della chiesa si conservava una tavola cuspidata raffigurante una Madonna con bambino in trono, attribuita a Bartolomeo da Miranda, oggi al museo diocesano di Spoleto. Le opere di maggior pregio sono presenti nell’abside, ove si riconoscono, tra le altre di minore valore, frutto del lavoro di bottega, le figure della Madonna e del Santo patrono, degne dei migliori lavori di Francesco Melanzio, discepolo del Perugino. Di particolare pregio è, inoltre, l’organo, opera del Maestro Calogero La Monica di Viterbo e di suo figlio Pietro. Tale strumento fu inaugurato il 16 ottobre 1805 nella chiesa di San Luca, a Spoleto. Fu quindi acquistato nel 1919, per 1.000 lire, dal parroco di Picciche, don Pietro Bolletta. L’organo, a lungo inutilizzato, è oggi perfettamente funzionante grazie ai restauri della ditta folignate del signor Umberto Cruciani. Dal 16 settembre del 1990, giorno in cui è stato inaugurato il suo ritorno agli antichi splendori, con un concerto del M.° Ottorino Baldassarri, questo organo fa nuovamente udire il suono potente dei suoi 12 registri originari, che conservano il pregio del timbro particolare, dovuto anche al felice invecchiamento delle sue canne armoniche.
All’interno dell’abitato attuale, lungo la via Tatarena, troviamo una delle più belle edicole della valle folignate-spoletina. Lavoro di un pittore minore che dipinse altre immagini nella valle, quest’opera risale alla prima metà del XVI secolo. Vi sono raffigurati la Madonna con il Bambino e due angioletti che ne sorreggono la corona. Sulla volta vi è il Cristo risorto e ai lati i ss.Antonio Abate, Stefano, Rocco e Sebastiano.
Sempre a Picciche, questa volta in prossimità della chiesa, troviamo un’altra edicola di un certo interesse, che ha la particolarità di presentare dipinto il Santo degli umili, patrono degli Italiani, san Francesco. Qui annotiamo che la raffigurazione del Santo dei poverelli nelle cappelle votive e nelle edicole della nostra campagna è piuttosto tardiva.
Tornando all’esame di questa seconda immagine, che si può far risalire al XVI secolo, registriamo che la raffigurazione principale, di fondo, simboleggia la Trinità, mentre in un intradosso vi sono il Santo di Assisi e san Giovanni Battista e, dalla parte opposta, due pie donne, sante e martiri – come testimoniato dal fatto che stringono una palma – Agata e Lucia. In alto, degli angeli si affacciano da una apertura circolare.
Se arriviamo oggi a Picciche notiamo la decadenza d’insieme dei pochi resti delle antiche mura, tra cui rileviamo anche la porzione basale di un torrione d’angolo, per gran parte inglobato in una recente costruzione, e di alcune vecchie abitazioni. Un’analisi, seppure compendiata, dell’architettura del luogo, dei segni rinvenibili sui muri, tra le pietre cadenti e i rifacimenti successivi, ci consente di datare alcune di quelle costruzioni, o meglio alcune porzioni delle medesime, tra la II metà del XV e il XVII secolo. Ad esempio, come curiosità che potrebbe interessare i nostri lettori, facciamo rilevare la presenza di architravi, appena curvati, realizzati con mattoni posti di coltello, sormontati da una fila di mattoni sistemati di piatto, strutture che nel capoluogo municipale sono tipiche di edifici datati con sicurezza alla seconda metà del ‘400. È possibile presumere che una parte delle abitazioni racchiuse dalle mura castellane fosse preesistente alla fortificazione, avvenuta, come già ricordato, ai tempi di papa Leone X.
Come per altre aree planiziali, anche nel caso di Picciche rileviamo un forte interramento dei luoghi, testimoniato dalla posizione seminterrata dei resti di alcune porte. Intervistando qualche abitante del paese si scopre che la rovina pressoché definitiva del castello è avvenuta, in particolare, negli ultimi cinquant’anni del secondo millennio, quando è stato chiuso anche il fossato che circondava l’abitato e dove, forse sino alla fine degli anni ‘50, si è continuato anche a pescare. È evidente che, negli anni del dopoguerra, le rinnovate necessità di un’edificazione a poco costo ma con prerogative tipiche di abitazioni più confortevoli anche da un punto di vista igienico-sanitario, ha indotto ad utilizzare le vecchie strutture, modificandole per le esigenze più moderne. Ha obbligato a recuperare materiali dai muri in rovina, senza rispettare alcuno dei criteri che sovrintendono il restauro conservativo. Così, abitazioni villerecce più recenti hanno inglobato le vestigia del passato storico della valle, con lo scempio conseguente che oggi è sotto gli occhi di tutti. Ciò nonostante, dalle parole degli abitanti del posto traspare l’amore per questi antichi mattoni che loro malgrado, per le impellenze di una povertà onesta e dignitosa, per l’inconsapevolezza del patrimonio culturale che li circondava in ogni frammento di territorio, non hanno potuto conservare, come magari oggi vorrebbero, potrebbero e saprebbero fare. Forse, ma la nostra è solo un’ipotesi di lavoro, è mancata da parte degli amministratori locali – che quella consapevolezza culturale avrebbero dovuto possederla per il ruolo che erano chiamati a ricoprire – la coscienza che non solo il centro storico del capoluogo meritava attenzioni particolari, ma anche ognuno di questi piccoli villaggi planiziali.
Contrade sopravvissute nei secoli alle scorribande delle masnade, che hanno imperversato in lungo e in largo nella nostra pianura. Scampate alle divagazioni, spesso violente, delle acque fluviali e torrentizie. Sempre risorte dalle rovine dei forti terremoti, che hanno seminato più volte morte e distruzione nelle nostre valli. Veterane di una povertà ancestrale, che imponeva agli abitanti ben altre esigenze che quelle della conservazione dell’architettura storica delle loro spoglie dimore.

Note bibliografiche
  • TREVI DE PLANU
  • Natalucci D. Historia Universale dello Stato Temporale ed Ecclesiastico di Trevi 1745, A cura di Zenobi C., Ed. Dell’Arquata, Foligno 1985
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